Cattedrale S. Maria del Fiore – sabato 11 aprile 2020

[Gen 1,1-2,2; Es 14,15-15,1; Ez 36,16-28; Rm 6,3-11; Sal 117; Lc 24,1-12]
La notte della Pasqua la liturgia convoca tutti e quattro gli elementi primordiali del cosmo: il fuoco che illumina la notte e che ora si concentra nella fiamma del cero; la luce che da questi promana e illumina lo spazio, l’aria all’intorno; l’acqua che, abitata dallo Spirito, genera la vita nuova; infine la terra, la roccia del sepolcro, vuoto perché il Signore è risorto. La fede e la sua espressione sono strettamente legate al mondo: nel cosmo, da lui creato, Dio compie la salvezza.
La nostra identità umana e di fede vive nel mondo, e in esso la salvezza prende forma. La salvezza non ci è giunta come comunicazione di un complesso di verità fuori della storia, ma attraverso il farsi carne del Figlio di Dio nel corpo di Maria. La nostra fede non è un insieme di idee su Dio, sull’uomo e sul mondo, ma è riconoscere la presenza personale, corporea, di Dio tra noi. Lo ribadisce la Pasqua, in cui la redenzione dell’umanità dal male che l’ha resa schiava passa attraverso il corpo di Gesù appeso a una croce e poi risorto a vita nuova. E se ci è evidente che, senza il corpo, Gesù non avrebbe potuto andare incontro alla morte, a volte si rischia di pensare alla sua risurrezione come la trasformazione della persona di Gesù da realtà corporea a una condizione puramente spirituale, immateriale. Le incomprensioni possono nascere perché non sappiamo comprendere il linguaggio neotestamentario, che usa parole come corpo, carne, spirito in maniera diversa da noi. Sia chiaro: a risorgere non è lo spirito di Gesù, ma il suo corpo: «[Le donne] entrate, non trovarono il corpo del Signore Gesù» (Lc 24,3). Il corpo di Gesù risorto non svanisce come materia: è invece trasformato, poiché nella novità della sua vita da risorto vengono meno i limiti di cui la materia è connotata in questo mondo. Il Risorto è una persona il cui corpo e il cui spirito escono trasfigurati dalla tomba, per diventare trasparenza pura della sua unione con Dio.
Quali conseguenze trarre da queste riflessioni per vivere una fede non genericamente religiosa, ma propriamente cristiana? Anzitutto che la nostra partecipazione al disegno di salvezza, che il Padre ha voluto realizzare nel suo Figlio, non vuole condurci fuori dal mondo, ma deve misurarsi con la realtà cosmica, con la natura che ci circonda, nel suo uso responsabile, e con la concreta realtà degli uomini e delle donne intorno a noi, da servire come fratelli nelle loro concrete condizioni storiche. Oggi, in particolare, è nel servire i corpi sofferenti dei nostri malati che dobbiamo misurare la nostra fede.
Ma il servizio va oltre la cura dei corpi e chiede di misurarci con gli eventi che si sono abbattuti su di noi e sulle responsabilità storiche che ci attendono. La storia per noi è cambiata da un momento all’altro. Eravamo così sicuri di noi stessi, del modello di civiltà che andavamo costruendo, che abbiamo potuto pensare di essere invulnerabili, così forti nella nostra volontà di potenza da ritenere di poter tradurre ogni desiderio in un diritto, di poter estendere senza limiti i confini del nostro dominio sul mondo.
I segni premonitori, che pur ci sono stati, non hanno scalfito questa fiducia assoluta nelle nostre possibilità: né l’11 settembre 2001 e il terrorismo che di lì in poi ha insanguinato il mondo, né la crisi finanziaria del 2008 con le devastanti conseguenze economiche sulle persone e i paesi più deboli, né le migrazioni degli ultimi anni a cui si è reagito con l’impreparazione o con i muri e il riemergere del razzismo.
Ma ora il nemico ci aggredisce senza farsi vedere e non guarda in faccia a nessuno, svelando la radicale fragilità della condizione umana. Le culture diffuse hanno tentato di convincerci che l’uomo è padrone di se stesso, al punto di avere nelle sue mani il potere di cambiare la propria natura. Ma l’umanità che ha cominciato a giocare pericolosamente nel modificare il proprio DNA, si è accorta di tutti i suoi limiti di fronte a un virus che non solo fatica a debellare, ma persino a conoscere.
La presunzione circa il potere dell’uomo si estende alla diffusa pretesa di una garanzia assoluta alle sue scelte, cercando di estendere le forme dei nostri diritti. Si è giunti a rivendicare il diritto di poter morire quando e come si vuole, e ora ci si ritrova nella condizione che la morte ci assale in tempi e modi che non riusciamo a governare. Nelle nostre leggi è stato dichiarato il diritto alla salute, ma non riusciremo mai a garantirlo di fronte a un virus. Più saggiamente e più umilmente, avremmo dovuto assicurare l’impegno dello Stato a garantire la cura della salute, come peraltro ha fatto con la legislazione dello stato sociale e lo sta facendo encomiabilmente in questa emergenza, sorretto dall’impegno di quanti operano nel sistema sanitario. Più in genere, si è sviluppata l’area dei diritti individuali, che spesso solo chi può riesce ad assicurarsi, ed è stata profondamente ferita la tenuta delle solidarietà sociali. L’aver preteso di inserire tra i diritti umani la nostra presunzione di garantirci come assoluti padroni di noi stessi, ha messo in ombra gli autentici diritti della persona, quelli che vanno perseguiti per assicurarne la dignità.
Radicare la nostra vita di fede nella concretezza della storia, significa capire che il messaggio di novità di vita che viene dalla Pasqua deve esprimersi nella concreta edificazione di un mondo in cui le ragioni delle relazioni abbiano il sopravvento su quelle dell’individualismo, l’accoglienza vinca il rifiuto, la cura prevalga sull’indifferenza, la responsabilità sull’incoscienza, la misura sull’eccesso, la condivisione sulla bramosia, l’amore sull’odio.
Guardiamo al volto di Gesù, alla sua vita fatta dono e scopriamo da lui quale forma dare al mondo di domani, che vorremmo diverso da quello che stiamo lasciando alle nostre spalle mentre attraversiamo questa emergenza. Perché il mondo sarà sicuramente diverso, ma sta a noi dire come. Lo stanno ripetendo da più parti, Ma, diverso come? L’auspicio è che assomigli meno a quello di ieri, perso nei consumi e nella superficialità, e più a quello di oggi, che si prende cura di chi soffre e con responsabilità fa rinunce per non nuocere al prossimo. Questa sì che sarebbe una risurrezione! Ce lo auguriamo a vicenda in questa notte. Ci ha ricordato san Paolo: «Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,11).
Giuseppe card. Betori
Rispondi